Al Teatro Ghione: “Certe Notti”

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Certe Notti”, in scena in questi giorni al Teatro Ghione, ha il pregio di raccontare una pagina della nostra Italia, fatta di corpi, di anime, di passioni e di sofferenze che un partenopeo non avrebbe potuto raccontare meglio. Antonio Grosso, autore, attore e regista apprezzato, ha saputo in questo caso con un assunto delicato e irruente come la sua natura sudista, trasferirlo sul palcoscenico con l’aiuto efficace della regia di Giuseppe Miale Di Mauro. La vicenda si snoda tutta nella casa dello studente, qui sono a confronto le quotidianità di persone che sono anche fuori corso e che si danno forza uno con l’altro. È specialmente la realtà di Vincenzo e quella di suo fratello Mario ad essere evidenziata, poiché Mario è un genio, intuisce e arriva dove gli altri non arrivano, ma la sua mente è a senso unico, non è integrato nella società e difficilmente si confronta con il mondo esterno, insomma ha dei problemi seri e suo fratello lo accudisce come può, affrontando il più delle volte i suoi attacchi collerici e le crisi. Il tormentone di Mario sono i numeri, quei numeri che alla fine tradiranno la natura umana, portando l’imprevisto e la drammaticità. Intorno ai due fratelli, il professore cattivo e autoritario che rende la vita difficile agli studenti, la ragazza ribelle e figlia di papà che fa di tutto per rendersi antipatica agli altri inquilini, ma che fa presa sugli uomini della casa per la sua avvenenza. C’è poi la coppia che passa il tempo a fare l’amore e spera in un futuro migliore, lui romanaccio e lei sudista scappata da una famiglia conservatrice. Insomma giovani che non vogliono crescere e che si appoggiano l’uno sull’altro in una casa che diventa lo specchio e la separazione dall’esterno. Non mancano attimi di ironia, di malinconici turbamenti evocati da Mario innamorato perdutamente della giovane donna che mette distanza tra lei e gli altri. In tutto questo lo splendido brano “Sfiorivano le rose” di Rino Gaetano, un motivo che da i brividi e riporta alla metà degli anni 70, quando i turbamenti e le ribellioni erano all’ordine del giorno tra gli studenti. I cinque universitari rappresentano la nazione, il senso dello straniamento, del dubbio e della poesia che è insita nell’italiano, tutto spazzato via da un unico fatto che porta alla fine e all’annientamento di quello che erano, ma anche di quello che rappresentiamo, poiché quello che accade in scena è frutto degli ultimi avvenimenti di cronaca. È Mario poi a intuire quello che sta succedendo e che spazzerà in un solo momento tutte le poche certezze di una vita. Il finale è sensazionale, perché spiazza lo spettatore e evoca con effetti di luce il momento catastrofico e ineluttabile del destino. La fine ha il sopravvento sugli umani ed è sviscerata in maniera perfetta, tanto da lasciare senza parole lo spettatore, preso dall’emozione di un momento che potrebbe essere suo in ogni istante. Bravissimo Antonio Grosso nel ruolo di Mario, che ha dovuto trasferire non solo nella recitazione, ma anche in una certa fisicità la sua diversità. Rocio Munoz Morales ha il fisico del ruolo per raffigurare una ragazza spagnola con la rabbia di vivere, abbastanza convincente da risultare simpatica, anche se il suo ruolo non lo richiede. Ciro Scalera, Ariele Vincenti, Antonello Pascale e Federica Carruba Toscano sono tutti in parte e capaci di passare da un registro recitativo brillante ad uno più drammatico senza difficoltà alcuna. Da vedere. Si replica fino al 19 febbraio.

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