Tutto ha inizio la mattina del 24 dicembre 1996 con l’avvistamento di un naufrago in mezzo al mare, un adolescente dai tratti indiani che Saro Ferro salva al rientro di una battuta di pesca nel mare in tempesta. Il ragazzo non ricorda nulla di sé, non parla l’italiano e non vuole comunicare. Questo è l’annuncio della tragedia che sta per abbattersi su Portopalo, e che prende forma nei giorni successivi quando nella rete di uno dei pescatori, Antonio, si impiglia un cadavere. Il padrone della barca fa quello che deve fare e consegna il cadavere alla Capitaneria di Porto, col risultato che gli viene sequestrato il peschereccio come corpo del reato. Nei giorni successivi anche altri pescatori, tra cui Saro, trovano dei cadaveri nelle reti. La quantità di ripescaggi sono tali che stavolta il rischio è alto, la pesca dell’intera flotta potrebbe essere bloccata: sarebbe la fine per l’economia di Portopalo. All’unanimità i pescatori decidono di non rischiare, di rigettare i cadaveri in mare e di non farne parola con nessuno. Anche Saro si allinea con la maggioranza, anche se mastica amaro, si sente a disagio. Anche perché quel ragazzo senza nome che Saro ha ripescato e che ora vive come clandestino nelle campagne, dopo essere scappato dall’ospedale, in qualche modo dà un volto a quei poverini che sono morti in mare. Per Saro è difficile non pensare che quei corpi, che tra loro chiamano in codice “tonni”, sono in realtà delle persone umane che hanno avuto sentimenti, sogni e progetti. Per lui tacere significa soprattutto proteggere la sua famiglia, perché se non si pesca si affoga nei debiti. E lui ha tre figli: Gaetano, il piccolino, e due un po’ più grandi, Meri ed Emanuele. E anche una moglie, Lucia, che fa la professoressa alle medie e che sogna una vita tranquilla e senza troppi intoppi. Nel frattempo i media diffondono la notizia che alcuni profughi approdati in Grecia hanno parlato di un naufragio nel canale di Sicilia, che ha coinvolto quasi 300 persone. Un naufragio mai confermato né dalle autorità marittime né dalle istituzioni.
Passano cinque anni, e la notizia non è mai trapelata. È rimasta un segreto dei pescatori, che non ne hanno mai più parlato, nemmeno tra loro. Ma per Saro è diverso. In quei cinque anni si è preso cura di quel ragazzo indiano che è stato ribattezzato Fortunato, e che lavora al molo. Fortunato continua a non ricordare nulla del suo passato, o almeno così dice, ha imparato ad esprimersi in italiano e a vivere con poco. Ma un giorno le reti della barca di Saro s’incagliano, tirando su un pezzo di albero di una nave e degli indumenti nei quali c’è una carta d’identità. Appena Fortunato lo vede è come se quel documento squarciasse un velo nella sua immobilità, lo ricollegasse ad un passato che gli fa paura. Saro fa di tutto per farlo parlare, ma il ragazzo si rifiuta, vuole essere lasciato in pace.
Saro consegna tutto alla capitaneria di porto, probabilmente si tratta di resti del naufragio di cinque anni prima… ma capisce che di quella faccenda i militari non hanno memoria e lo sconsigliano di preoccuparsene. Forse perché è colpito dall’afflizione di Fortunato, forse perché ha l’occasione di lenire il senso di colpa che non l’ha lasciato in pace per cinque anni, Saro decide di andare avanti, costi quel che costi. In occasione del viaggio a Roma per accompagnare sua figlia Meri ad un provino, che la ragazza si è guadagnata vincendo un concorso di bellezza, Saro riesce ad entrare in contatto con un giornalista di Repubblica, Giacomo Sanna: c’è un relitto fantasma sul fondo del Canale di Sicilia a diciannove miglia dalle coste di Portopalo. Su quella nave sono morte quasi 300 persone.
È certo di quel che dice ed è convinto di sapere dove si trova il relitto. Ma Saro non trova un’accoglienza entusiastica in Sanna: per lui il pescatore potrebbe essere un mitomane e prima di credergli vuole verificare personalmente tutta la storia. E solo quando, attraverso il suo domestico indiano, Sanna scopre che quel documento apparteneva ad un giovane tamil, capisce che potrebbe essere davvero legato alla nave fantasma sulla quale effettivamente viaggiavano parecchi tamil. Fortunato di quel viaggio comincia a ricordare piccoli e brevi frammenti incongruenti. E dentro di sé non sa neanche più se vuole ricordare. In fondo dopo cinque anni la sua vita è qui, ed anche se non è totalmente integrato nella comunità, ha un lavoro una casa e una rete di affetti con la famiglia di Saro. Ma è un dato di fatto che avere ripescato quel tesserino gli ha spalancato davanti il pozzo dei ricordi e dei sentimenti, e lentamente capisce che non può più negarsi al passato che sta riemergendo inesorabile. Cominciano a venire a galla nomi, facce, luoghi. Cose sconcertanti. Violenza, sangue, dolore.
Intanto Sanna parte per Portopalo, dove prima di tutto si convince fino in fondo che Saro è in buonafede e poi, spacciandosi per un giornalista che si occupa di turismo, indaga sulla storia che gli ha raccontato Saro, scoprendo un mondo di reticenze. Quando Sanna viene minacciato da un losco individuo del posto, capisce che la storia è vera e decide di scrivere il suo pezzo, ma sceglie di omettere il nome del suo principale testimone, Saro. Per esperienza, il giornalista sa che sta raccontando una verità scomoda e che quelli che potrebbero pagare il prezzo maggiore sono Saro e la sua famiglia. Quando esce l’articolo, infatti, i portopalesi ci mettono un attimo a capire chi ha parlato, infrangendo il sottaciuto patto di silenzio. Improvvisamente la comunità cambia atteggiamento nei confronti di Saro e della sua famiglia. I Ferro vengono emarginati, e né i Salemi né il parroco si distinguono, mettendo il carico all’ostilità generale. Una notte, qualcuno molla al largo il peschereccio di Saro, che è la loro fonte di sostentamento e per il quale hanno sulle spalle un mutuo pesantissimo. Se affondasse sarebbe la fine, e Saro, aiutato solo da Fortunato, affronta la tempesta a bordo di un gommone nell’intenzione disperata di ritrovare la barca.
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