Grazia Scuccimarra ha una inventiva e destrezza dialettica fuori dal comune, data anche dalla padronanza scenica. 40 anni di palcoscenico e non sentirli, almeno per una artista che fa dei suoi spettacoli dei momenti memorabili di vita vissuta e trascorsa con l’aria dissacrante di un essere umano che osserva, si arrabbia e incalza quando può contro i politici. Con “Chiedo i danni”, suo cult teatrale, in scena in questi giorni al Teatro degli Audaci, l’ex professoressa di Diritto e Economia, mette in scena i vizi, le consuetudini e il malcostume dell’italiano medio e di quello famoso, con una vena satirica fuori dal comune che non può che far ridere il pubblico, ma in maniera intelligente. Le battute sono repentine, acute, non quella ironia scontata mordi e fuggi, Grazia prende il pubblico al laccio dei suoi discorsi dirompenti e ne esalta le convinzioni collettive che sono tutte protese a mettere alla gogna i nostri governanti, rei di aver tradito la nostra fiducia e la nostra indolenza.
Inizia il monologo mettendo in primo piano il nostro cervello, reclamandone uno per tutti, ma difficile da trovarsi in una società dove la parola “culo” ha una metrica speciale e per questo viene usato più del cervello. Poi prende di mira il Presidente del Consiglio, Gentiloni che appena lo vedono capiscono le problematiche del nostro Paese. Una nazione dove appena nasci ti mettono nel registro degli indagati per non perdere tempo, perché tanto poi quando si diventa adulti è inevitabile che ci si vada. Grazia non si risparmia e non risparmia nessuno, perché le parole servono a liberarsi dei danni subiti, anche da un marito tirchio che non chiede scusa neanche quando involontariamente ti sbatte in faccia la porta del frigorifero. I danni sono tanti, ma non si può neanche fuggire dall’Italia, perché l’handicap è rappresentato dalla lingua, ne parliamo solo una e a a volte in maniera errata.
L’inglese è di difficile comprensione e anche Grazia ha difficoltà a parlarlo con una nuora straniera a cui risponde sempre “Very, well thank you”, anche se la sua vita italiana è uno schifo. Dirompente e inesauribile, la Scuccimarra ha come unico interlocutore un pupazzo al maschile che è seduto su una sedia a cui lei ogni tanto si rivolge come se fosse in carne ed ossa. Un telefono squilla ed è sempre il Preside che le ricorda i suoi trascorsi da precaria, quando correva da una parte all’altra per una supplenza di 25 minuti. Tempi tellurici, ma momenti in cui un discorso valeva oro al confronto con un oggi sterile in cui tutto si riduce all’abbreviazione di una parola o di un concetto. Grazia Scuccimarra finisce il suo monologo di più di 90 minuti, esortando i politici a non fare un grande centro, lei ci ha messo una vita a farlo per una tovaglia di merletto che esibisce come un fiore all’occhiello. I politici si devono accontentare di un centrino che è più adatto alle loro capacità intellettive. Dissacrante come non mai ci lascia con una grande verità e dopo aver riso tanto, l’augurio è che dopo di lei ne nascano altre di eredi del teatro di parola. Grazia Scuccimarra, un Dario Fo al femminile che sposa il sacro con il profano. Si replica al Teatro degli Audaci fino al 2 aprile.