Questa sera su Rai 4 va in onda “Crank” per la regia di Mark Neveldine con Jason Statham, Amy Smart, Jose Pablo Cantillo, Efren Ramirez, Dwight Yoakam.
Chev Chelios è un killer che ha smesso di uccidere per amore della bella Eve. Ma il boss dei duri e cattivi malavitosi della West Coast non ci sta e lo condanna a una morte singolare. Durante il sonno, lo schizzato Ricky Verona inietta a Chev un veleno che arresta il cuore. Per sopravvivere il suo corpo dovrà costantemente rilasciare adrenalina. Far reagire il cuore, creando situazioni di stress, sarà la missione del killer pentito. Lecito e vitale qualsiasi espediente: provocare afroamericani incazzati e armati, guidare in un centro commerciale, scolare Red Bull, cavalcare una moto o possedere la compagna sui marciapiedi di Los Angeles.
Se il cinema commerciale americano è in crisi, Crank, dei debuttanti Mark Neveldine e Brian Taylor, è certamente l’antidoto in grado di rianimare i modelli estetici del cinema d’azione e di cogliere i mutamenti sociali e culturali che l’industria dello spettacolo ha mancato di metabolizzare. L’opera prima e iperattiva degli ex pubblicitari è capace di costruire uno spettacolo di qualità dagli standard altissimi, sperimentando in maniera audace e (decisamente) adrenalinica nuove formule di intrattenimento.
Il sentimentalismo congiunto all’action, l’uso dello split screen depalmiano, il montaggio serrato, la narrazione in tempo reale, il ruolo centrale delle locations (Los Angeles) sono alcuni degli elementi che Crank recupera al cinema passando per la fiction televisiva e attraverso la specificità del mezzo televisivo. Il plot è noto, come pure il “die hard” protagonista: un (anti)eroe ruvido capace di bloccare da solo l’azione di cattivi perfettamente equipaggiati. L’unicità di Crank va cercata piuttosto nella capacità di riciclare stereotipi, battute e ammiccamenti al recentissimo action seriale. Dalle TV-series il film recupera (anche) il tema della morte spinta ai confini del rappresentabile, mutando il rapporto con il corpo fino a renderlo osservabile dall’interno, fino a penetrarlo e a esplorarlo come fosse un universo virtuale. Nel film il gesto violento, la rivelazione della materialità del corpo euforico (conseguenza dell’abuso di epinefrina) e di quello pornografico (l’amplesso esibito mentre si esibisce), sono visceralmente legati alla necessità di vedere. Detta e mostrata con distacco ironico tutta la violenza, non resta che contare i morti e riesumarli nei titoli di coda.
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