Questa sera va in onda “Premonitions” su Sky Cinema Suspense, per la regia di Afonso Poyart con Anthony Hopkins, Jeffrey Dean Morgan, Abbie Cornish, Colin Farrell, Matt Gerald.
L’agente speciale dell’FBI Joe Merriwether non riesce a fare luce su una misteriosa catena di delitti. Ingaggia così un suo ex collaboratore in pensione, il medico psicanalista John Clancy, allo scopo di risolvere il caso. Dotato di particolari capacità sensitive, John si mostra intenzionato a rifiutare l’offerta fin quando capisce che ad essere in pericolo è la giovane Katherine, collega di Joe nella quale egli rivede la figura della figlia, prematuramente scomparsa. Messosi sulle tracce del serial killer, scoprirà ben presto che a leggere il futuro sono entrambi.Se Colin Farrell, reduce dal pur ottimo The Lobster, veste i panni dell’eminenza grigia con un’interpretazione in pendant, Anthony Hopkins, col suo sguardo artico e l’eredità di Lecter ancora da smaltire, conferma di essere ormai da tempo un grande attore sul viale del tramonto. Convince poco questo atteso incontro-scontro (l’antagonista non apparirà prima del terzo atto) tra le due star dotate di poteri al limite del paranormale, e la responsabilità è anche del brasiliano Afonso Poyart, che dopo l’esordio 2 Coelhos, action super effettato da noi inedito, firma un thriller che cita la Bohème e i versi del gesuita Gerard Manley Hopkins, non lesina lampi estetizzanti di un’Atlanta notturna e calligrafica che guarda da lontano a Michael Mann, si abbandona a superflui movimenti di macchina e aborriti sincretismi da videoarte. Doveva essere, al momento in cui venne opzionato dalla New Line Cinema, un sequel di Se7en, ma Fincher prudentemente schivò il colpo. È invece il luogo in cui far convergere sacro e profano dietro la lente spuria di un tema caldo come l’eutanasia, la “buona morte” che il protagonista assicura in anticipo ai suoi prescelti, malati terminali in pectore. E anche mettendo da parte la più banale delle domande a cui la storia non si fa carico di rispondere in modo adeguato (perché giocare al gatto e al topo quando si sa in anticipo di essere il topo?), resta la vertigine di un finale che nell’assolvere unicamente alla funzione spettatoriale porta il testo in debito di coerenza, facendo naufragare qualsiasi lettura politica precedentemente ipotecata. Nell’introdurci allo spettacolo con il dettaglio dell’occhio di una delle vittime (altro cliché), il film finisce involontariamente per testimoniare l’assenza del proprio sguardo. Perdendo così nel più fallimentare dei modi la propria scommessa: perché chi guarda, ancor prima e ancor più di chi è in scena, ha già previsto tutto.
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