Di Paola Aspri
Quando si entra nel mondo cabarettistico del “Kit Kat Club”, il tempo si è fermato e quello che si ode fuori non è che un richiamo fastidioso alla realtà. In “Cabaret” su testo di Joe Masteroff, basato sulla commedia di John Van Druten e sui racconti di Christopher Isherwood, ci si coinvolge nella musica e nel magnifico maestro di cerimonie che è avulso dalle catastrofiche verità che di lì a poco coinvolgeranno tutto il mondo, in primis la Germania. Per raccontare “Cabaret”, in scena in questi giorni al Teatro Brancaccio, non basta entrare nei personaggi che popolano un mondo ignaro sulle atrocità perpetrate dagli uomini, prima dell’avvento del nazismo, bisogna farsi catapultare nell’atmosfera che anima i sentimenti degli artisti, romantici sognatori, chiusi in un universo che li rende atipici alle urla esteriori. Saverio Marconi porta il suo musical ad alti traguardi, facendo interpretare il maestro di cerimonie a Giampiero Ingrassia, quasi un Joker della scena, nei tratti e in una fisicità tra il fumettistico e il futuristico. Lui è l’attore che fa la differenza e sviscera e preannuncia in alcuni quadri l’avvento di un destino crudele e di un mondo che ancora prima che accadesse il peggio era destinato a marcire dietro al materialismo e all’attrattiva dei soldi facili. Intorno ad un club dove impazzano donne svestite e particolarmente appetibili in una Germania pre-nazista, si alterna la vicenda di Sally Bowles, attrice che rincorre sogni e chimere e si innamora di uno scrittore in cerca di gloria. Tra i due è subito amore, ma i sentimenti sono un lusso per pochi quando si ha a che fare con un cambiamento epocale che mette a tacere la dignità. Cliff è il giovane scrittore, il puro e ingenuo uomo che crede di cambiare le sorti viaggiando nella fantasia, un po’ come fa il maestro di cerimonie che invita gli avventori a vivere la favola in musica del suo luogo. Nonostante il destino giochi brutti scherzi il finale che ci regala “Cabaret” e soprattutto l’interpretazione registica di Saverio Marconi è quella di credere nei sogni anche se il mondo tenta di farci crollare le convinzioni. L’ultimo quadro del musical è eloquente e bellissimo, mostra la fine miserabile degli ebrei, chiusi dentro ad un treno che li porta verso i campi di concentramento. In quel momento i personaggi di “Cabaret”, nonostante la loro condizione di prigionieri, restano artisti, mantenendo l’integrità morale del loro stato. Non è facile portare in scena un musical che è stato preceduto dal magnifico film di Bob Fosse del 1972, dove una strepitosa Liza Minnelli metteva in mostra le sue gambe e l’erotismo scollacciato, ma elegantemente eccitante. Ora ad interpretare Sally c’è Giulia Ottonello con una magnifica voce e tenuta scenica, non propriamente seducente come Liza, ma somigliante più ad una “Fair Lady” nelle fattezze e nell’elegante modo di porsi. Sicuramente una scelta registica di Saverio Marconi che non ha voluto fare il verso al film, anche nello scegliere Mauro Simone, un Cliff misurato, timido e riservato come si addice ad un romanziere, più implosivo rispetto a Michael York nel film. Al contrario Giampiero Ingrassia è un deflagrante maestro di cerimonie e assomiglia a Joel Grey, mantenendo viva la tradizione non solo filmica ma anche energizzante del carattere in questione. Altea Russo, Michele Renzullo, Valentina Gullace, Alessandro Di Giulio, Ilaria Suss, Nadia Scherani, Marta Belloni, Andrea Verzicco e Gianluca Pilla sono perfetti per la Compagnia della Rancia, gruppo storico e inimitabile per i musical di tutti i tempi. La traduzione è di Michele Renzullo. Da vedere. Fino al 18 ottobre.
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